venerdì 26 agosto 2011

Manovra bis.


La manovra estiva tra tagli delle Province e Comuni, nuove tasse, liberalizzazioni e privatizzazioni.

La presente estate verrà ricordata, oltre per il caldo torrido di metà agosto , anche per la manovra di “lacrime e sangue”che il Governo si è apprestato a varare - in fretta e furia - fra luglio e agosto, al fine di evitare che la cd. “speculazione finanziaria” colpisse, dopo la Grecia, anche l’Italia.

La manovra estiva, è composta da un primo intervento correttivo della finanza pubblica varato a luglio ( D.L 98/2011) e di un secondo intervento - sempre con atto di decretazione d’urgenza - di metà agosto, reso quest’ultimo necessario dal riacutizzarsi della crisi dei mercati finanziari sia a livello mondiale che nei paesi dell’Eurozona.

Ambedue gli interventi, quello di luglio come quello di agosto, muovono dalla consapevolezza che la stabilità dei conti pubblici e le politiche di rigore sono elementi indispensabili e non più procrastinabili per un sana politica di rilancio economico. In questo senso, la crisi , ha avuto almeno il merito di spingere i vari governi nazionali a varare veri e propri programmi di risanamento pubblico, dopo un decennio di politiche di spesa pubblica alle stelle, e di debiti pubblici che tendevano a superare la soglia della ricchezza annuale prodotta .

Andando nel dettaglio della normativa, a luglio - come accennato - si sono poste le condizioni per un riequilibrio della finanza pubblica nel quinquennio a venire. Con l’obiettivo, coraggioso, di arrivare al pareggio di bilancio entro il 2016 attraverso una serie di provvedimenti che da un lato, andassero a privilegiare il risparmio sui centri di costo dei vari dicasteri e, dall’altro lato con la previsione di nuove entrare, andassero ad ampliare il gettito erariale per far fronte alla crisi finanziaria sul debito pubblico e, parallelamente, anche quella dei mercati borsistici.

La manovra di agosto, si è posta sulla scia della prima ed ha avuto il merito - sempre che il Parlamento si attivi per la conversione del decreto in legge - di anticipare alcuni temi che la manovra correttiva di luglio aveva spalmato nel triennio a venire.

Per semplificare potremo dividere l’azione estiva - cioè i due decreti del governo - su tre filoni di intervento: il primo, la politica e i costi della politica. Dove per tali si intendono da un lato, gli “stipendi” e i privilegi che la “casta” si riconosce a titolo di indennizzo per l’espletamento del mandato di rappresentanza popolare, e dall’altro lato, i costi degli apparati istituzionali: Parlamento, Regione, Provincia e Comune, tanto in termini di organizzazione che di funzionamento degli stessi.
Su questo frangente poi, è particolarmente sentita presso l'opinione pubblica anche la questione della soppressione delle province; come è altrettanto popolare la questione su la previsione dell’accorpamento obbligatorio dei Comuni sotto i 1.000 abitanti.
Se la manovra proseguisse il suo iter senza intoppi - per fare un esempio - la Regione Toscana si trovrebbe ad avere 3 province di meno, rispetto alle 10 odierne. E, ad essere soppresse sarebbero le province di Prato, Massa-Carrara e Pistoia che, nell’uno o nell’altro caso, non rientrerebbero nei parametri di territorio o abitanti indicati nel decreto.
Sul versante dell’accorpamento dei Comuni, invece, l’azione di razionalizzazione cadrebbe sull’obbligo da parte del piccolo Comune di intraprendere forme di associazioni di municipalità con altri Comuni contermini attraverso la creazione di nuove entità territoriali, la cd “Fusione di Comuni”.

Il secondo filone di intervento governativo si concentra , diversamente, sul lato delle entrate fiscali tanto in termini di nuove o maggiori entrate che di maggiori risparmi sulle spese in conto fiscale. Fra le prime ipotesi rientrano, l’adozione del ticket sulla sanità di 10 euro su visite e analisi e, il contributo di solidarietà del 5 per cento sui redditi sopra i 90.000 euro, e del 10 per cento sopra i 150.000 Euro. Anche se da anticipazioni di stampa, sembra che il contributo di solidarietà, pur se rimarrà tale come misura in sè, varierà in termini di prelievo, magari, aumentando la fascia di esenzione del reddito imponibile da “tassare”. Fra le seconde, rientra la previsione di tagli lineari da estendere a tutte le agevolazioni fiscali da un 5 per cento fino ad un 20 per cento nel 2014. Tra le voci da tagliare troviamo: gli assegni familiari, le spese sanitarie e di istruzione, redditi da lavoro dipendente, asili nido, sussidi e agevolazione per gli studenti universitari, ristrutturazioni edilizie, terzo settore, accise e credito d’imposta. Una mannaia che si prevede porterà nella casse dello Stato risparmi per 4 miliardi nel 2013 e 20 miliardi di euro nel 2014. Ma allo stesso tempo, potrebbe avere anche effetti di riflesso recessi , quest’ultimi, dovuti dalla minor capacità delle famiglie nella loro propensione al consumo.

Il terzo, e ultimo filone di intervento si riferisce a meccanismi di privatizzazione degli asset mobiliari e immobiliari pubblici e, di liberalizzazioni nel campo dei servizi e delle attività economiche.
Per quanto riguarda le privatizzazioni, oltre ad essere misure utili nel breve termine per dare ossigeno alle casse dello Stato, avranno nel lungo periodo - queste sì - effetti anche strutturali pro mercato, nel senso di una maggiore competitività sui beni e suoi servizi prodotti e, allo stesso tempo, libereranno ingenti risorse da destinare al risanamento del debito pubblico.
In uno studio condotto dall’Istituto Bruni Leoni, di poco tempo fa, si stimano ricavi derivanti dalla vendita di immobili di proprietà pubblica e di asset mobiliari su partecipazioni statali e di enti intermedi, per un valore che si aggira attorno ai 200 miliardi di euro, di cui circa la metà proveniente dalle società del Tesoro e la restante parte dalle cessioni immobiliari. Sul lato delle liberalizzazioni, il governo si appresta ad affrontare, assieme alle rappresentanze delle varie categorie delle professioni e degli esercenti, una riforma organica di sistema atta a ridefinire in senso liberale l’attività, gli orari e le licenze di bar, ristoranti, taxi, edicole ecc. Novità anche sul fronte delle corporazioni dei professionisti, con l’allineamento della normativa agli standard europei, attraverso l’introduzione del principio “ che è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”.
Un accenno, infine, a chiusura della analisi testé riportata , merita anche la “nuova forma di contrattazione collettività di prossimità” introdotta dal governo, e anch’essa disciplinata dal decreto ferragostano, che permetterà, nell’ottica di una migliorare occupabilità e redditività aziendale la possibilità che i contratti aziendali possano derogare, non solo della disciplina del contratto nazionale ma, entro certi limiti anche alla legge stessa. E questo, grazie ad un accordo firmato dal governo d’intesa con le maggiori sigle sindacali nazionali - lo scorso 28 giugno - che riformerà la materia dei contratti da lavoro dipendente nel senso di un’auspicata maggiore flessibilità dei rapporti fra lavoratore e l’impresa.

Alessandro Polcri -

mercoledì 13 aprile 2011

Giustizia: Un percorso che parte da lontano, per arrivare ad una riforma epocale di sistema


Il dieci marzo scorso, il Ministro Angelino Alfano a nome del Governo, di cui fa parte, ha esposto le linee direttrici di intervento legislativo in merito alla tanta agognata riforma della Giustizia. Si tratta precisamente, da un lato, di un disegno di legge costituzionale composto da 18 articoli (che andranno a modificare - se approvati - parte del Titolo IV della Carta Costituzionale ) e dall'altro, di una serie di leggi di rango primario atte a dare attuazione ai medesimi principi. In questo senso si può parlare - a ragion veduta - di un percorso di riforma, necessariamente lungo ed irto, da considerare in generale come “un primo passo di riforma verso una Giustizia più giusta e celere in linea con le maggiori legislazioni processuali degli altri Paesi Occidentali” come si è profuso a dichiarare nella conferenza stampa di presentazione del progetto di riforma lo stesso Ministro.
Per essere precisi, poi, tale percorso si inserisce in un più ampio cammino di riforme, in parte iniziato dal legislatore italiano nel lontano 1988 con l'approvazione del nuovo codice di procedura penale, ripreso poi dalla legislazione costituzionale del 1999 (quella del cd. Giusto Processo) e culminato nella riforma del codice di procedura civile del 2009. Tutti interventi , questi, accomunati da una maggiore sensibilità del Legislatore verso le tematiche afferenti il diritto alla difesa del cittadino-imputato, come anche quelle legate alle garanzie processuali tout court. Con l'intenzione poi, di spingersi oltre quella “cultura del sospetto” tipica dei modelli processuali inquisitori per raggiungere – diversamente - un più maturo equilibrio fra le parti del processo e il giudice (terzo e imparziale).
In sostanza, la presente riforma non fa altro che “ impacchettare”, cioè dare forma , alle legislazioni pregresse (che si incentravano più propriamente sul diritto alla difesa del cittadino- imputato), per addivenire - questa volta – ad una riforma complessiva del rapporto giudice-funzionario e sistema di giustizia in senso lato.
E' anche bene ricordare che,- tanto per evidenziare la storicità degli eventi - il codice di procedura penale viene alla luce proprio nel periodo successivo agli “anni di Piombo”, quando non si avvertiva più l'esigenza di mantenere intatte la legislazione speciale e punitiva tipica del codice Rocco e, quella serie di interventi di natura speciale legati al periodo, a cavallo degli anni '70 e '80, della cd. “ legislazione emergenziale”. Dove, maggiormente e diversamente, era forte l'esigenza dell'apparato statuale di dotare le forze di polizia giudiziaria e della magistratura requirente di una serie di strumenti , sì di alto impatto sui diritti dell'individuo, ma che si giustificavano con la protezione del più importante valore dell'ordine costituito repubblicano.

Entrando del dettaglio del disegno di legge costituzionale, si capisce chiaramente – a pelle - che il Governo tenderà a muoversi su quattro distinti pilastri di principio. Il primo, legato alla separazione delle carriere dei giudici ( oggi solo apparente e per funzioni) per introdurre successivamente nella legislazione di dettaglio anche due distinti concorsi, l'uno per l'accesso alla professione di giudice e l'altro per quello di pubblico ministero. Invero, più propriamente si ritiene che i magistrati ad inizio carriera dovranno decidere anticipatamente quale delle due strade percorrere. Il Pubblico Ministero, che riveste il ruolo della pubblica accusa, verrà più o meno equiparato all'avvocato della difesa. Il giudice, magistrato giudicante, sarà membro di un “ ordine autonomo e indipendente da ogni potere e soggetto soltanto alla legge”. Ciò imporrà che il Consiglio Superiore della Magistratura - oggi diviso per sezioni - sarà suddiviso in due organi distinti, con propri uffici e norme di funzionamento, l'uno più propriamente denominato “Consiglio Superiore della Magistratura Requirente” l'altro della “Magistratura Giudicante”.
Cambieranno anche le regole di composizione e funzionamento dei due organi, infatti, già a livello di carta costituzionale si indicherà , nei riformulati artt. 104-bis e ter , che i rispettivi componenti saranno eletti per metà da tutti i giudici ordinari appartamenti alla medesima categoria previo sorteggio degli eleggibili e, per metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio. Ne fanno parte - inoltre - di diritto, il Presidente della Repubblica, che presiede , e rispettivamente il primo presidente e il primo procuratore della Corte di cassazione. La durata della carica di consigliere è di anni quattro e non possono essere rieletti. Peraltro, v’è da aggiungere che in un’ottica di ampia riforma, gli uffici del Pubblico Ministero dovrebbero essere istallati in edifici autonomi rispetto al Tribunale, affinché venga garantita sul serio l’equidistanza delle parti dal magistrato giudicante, anche attraverso una netta separazione degli uffici giudiziari.

Il secondo pilastro attiene all'introduzione della responsabilità dei magistrati, difatti il nuovo art. 113 bis Costituzione, sarà riformulato nel modo seguente: i magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato. E si farà rinvio, inoltre, ad una atto di normazione successivo, per disciplinare la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale.
Importante poi, la norma che estende la medesima responsabilità anche allo Stato. Oggi, nei fatti, risulta solo lo Stato l'unico responsabile degli atti e comportamenti indebiti dei propri magistrati-funzionari. E' facile intuire , poi, - per la portata della norma - “ il vespaio” di critiche che porterà con se tale intervento, anche perché, in molti considerano la responsabilità civile dei magistrati un “grimaldello” della attuale classe politica da utilizzare ad uso e consumo nei confronti dell'ordine dei magistrati.
Altra innovazione - sempre attinente al comportamento del magistrato nell'espletamento delle sue funzioni - a riguardo la previsione di una Corte di disciplina divisa per sezioni, alla quale spetterà il compito di decidere sui provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. La legge, poi, assicurerà “ l'autonomia e l'indipendenza dell'Alta Corte di Giustizia ed il principio del giusto processo nello svolgimento della sua attività. Anche la composizione del medesimo organo ricalca la disciplina della composizione degli altri componenti del Consiglio Superiore, sia per quanto attiene la quota di Consiglieri da eleggere in seduta comune in Parlamento sia per la quota da eleggere fra i togati della categoria di appartenenza.

Il terzo pilastro è quello relativo all'esercizio dell'azione penale, che rimarrà obbligatoria, cioè il PM avrà l'obbligo di esercitare l'azione penale nel caso di notizie di reato assunte, ma lo dovrà fare - questa la novità – secondo criteri stabiliti dalla legge. In parole più semplici, sarà la legge, anno per anno a indicare al PM i criteri di priorità dei procedimenti penali, e questo, in base ad una valutazione politica e non più a discrezione del magistrato. Come nei fatti lo è oggi. A questo aggiungasi che, con la nuova riforma - se andrà in porto – il PM e il giudice disporranno della polizia giudiziaria pur con i limiti stabiliti dalla legge, rimandando quindi a una legge ordinaria ulteriori chiarificazioni e limitazioni.

Ultimo aspetto della riforma a riguardo l'inappellabilità delle assoluzioni, su questo punto, il legislatore aveva contribuito già con la legge Pecorella ( 2006) a introdurre per atto normativo primario qualcosa di simile, ma la Corte Costituzionale in due pronunce diverse, l'una del 2007 e l'altra del 2008 dichiarò il testo parzialmente incostituzionale per contrarietà al principio di uguaglianza e di parità delle armi fra accusa e difesa, posto che l'accusa, in caso di assoluzione in primo grado dell'imputato rimaneva esautorata del potere proprio del PM di proporre appello. Così oggi, si ritenta in via costituzionale di far passare il principio per cui se il giudice di primo grado ha ritenuto che il fatto non sussiste o per altra formula liberatoria, anche il PM debba comunque astenersi dal proporre l'impugnativa, anche perché si tratterebbe di un'ipotesi di accanimento nei confronti dell'imputato risultato vittorioso con formula piena , ancorché in primo grado.

venerdì 28 gennaio 2011

La riforma Gelmini, è legge


Il legislatore dopo un iter di approvazione lungo e dibattuto, a causa delle numerose polemiche che si sono inserite dentro e fuori le Istituzioni, è riuscito comunque lo scorso dicembre “a portare a casa “la cd. Riforma Gelmini, volta a introdurre meccanismi di meritocrazia e di efficienza organizzativa all'interno del sistema universitario.
Si parla , - impropriamente - in subiecta materia di “Riforma”, anche se in verità si tratta di norme che meramente e principalmente si inseriscono nell'alveolo della normativa di settore per la riorganizzazione del sistema di reclutamento, organizzazione interna ed esterna dell'Università nel suo complesso. E a ciò, si aggiungono una serie di deleghe al Governo per introdurre elementi di competitività e di efficienza gestionale, nonché di meritocrazia da emanare entro l'anno di rifermento (2011 -12).
La riforma Gelmini, come voluta dal suo estensore e dalla maggioranza parlamentare che l'ha approvata, si inserisce in un più ampio dibattito che attiene al grado di competitività del nostro sistema universitario rispetto a quello degli altri Paesi Europei e non. I dati che emergono dalle analisi di settore sono preoccupanti e mettono bene in evidenza l'inadeguatezza del nostro “sistema sapere”. Basta rammentare che nel 2006 il numero dei laureati in Italia si presentava come in assoluto il più basso ( appena il 17%) fra i paesi OCSE, superato dalla Germania con il 22%, dalla Gran Bretagna con il 37%, dalla Spagna e USA con il 39%, dalla Francia con il 41% e dal Giappone con il 54%. E ad oggi – purtroppo - non risulta alcuna inversione di tendenza.
Paradossalmente, il dato però non sarebbe così sconfortante se ad un minor numero di laureati corrispondesse una maggiore “bravura” degli stessi, atteso che il vero significativo obiettivo da raggiungere per ogni sistema di alta formazione e di ricerca avanzata che si rispetti, è quello di creare sintonie con il mondo del lavoro attraverso la determinazione di un modello che abbia come finalità concreta la necessità di produrre laureati di maggior qualità utilizzando una selezione autenticamente rigorosa.
Non è un caso che, proprio oggi , le Università italiane risultino essere addivenute delle grandi ”aree di parcheggio” dove le famiglie e i giovani si aggrappano in attesa di tempi migliori ( a causa della presente stagnazione economica), salvo poi perdersi nella disillusione e nel fatalismo sterile e improduttivo che anima la mente delle nuove generazioni. Queste , a mio avviso le premesse (fenomenologiche) che molto sommariamente e sinteticamente hanno fatto da cornice al provvedimento in esame. Tal che oggi si può parlare - apertamente - di un primo passo verso più ampie prospettive che mettano in luce un nuovo modello universitario maggiormente funzionale agli interessi del lavoro. Si potrebbe anche sintetizzare il concetto, ponendo la riforma Gelmini “come punto di partenza e non di arrivo” verso un modello “nuovo e funzionale” dell'Università aperto a principi quali la concorrenza, l'efficienza e la meritocrazia.

Ora – nel proseguo - vediamo nel dettaglio, quali e come sono strutturate le innovazioni apportate dalla normativa testé oggetto di analisi. Partiamo dal titolo I della presente legge, a proposito di “organizzazione del sistema universitario”, il quale prevede, nel generale quadro di riordino complessivo della Pubblica Amministrazione, la modifica degli statuti dei singoli atenei da effettuarsi nel termine di sei mesi dall'entrata in vigore della legge, e secondo i principi di semplificazione, efficienza, efficacia e trasparenza dell'attività amministrativa.
Nello specifico , si ridefiniscono la composizione, la durata e la funzione degli organi facenti capo alle singole Università: al Rettore è affidata la rappresentanza legale dell'ateneo, con funzioni di indirizzo e di coordinamento della attività scientifiche e didattiche, ed è eletto tra i professori ordinari. La durata della carica è vincolata ad un unico mandato di sei anni non rinnovabili. Segue, il Senato accademico, che elabora proposte e pareri obbligatori in materia di didattica e di ricerca, e resta in carica per quattro anni e può essere rinnovato una sola volta. Diversamente, al Consiglio di Amministrazione ( CdA) è attribuita una competenza gestionale ed una specifica (competenza) a livello disciplinare; approva i bilanci dell'ente. Si è poi introdotta la figura del direttore generale, da scegliere tra personalità di elevata qualificazione professionale e comprovata esperienza pluriennale, con funzioni dirigenziali. Il suo rapporto di lavoro è regolato da un contratto a tempo determinato di durata non superiore a quattro anni; rinnovabile. Previsto poi, un nucleo di valutazione, con soggetti di elevata qualificazione professionale in prevalenza esterni all'ateneo; esercita compiti di verifica della qualità e dell'efficienza dell'offerta didattica, su parametri individuati da una commissione paritetica composta da studenti e docenti. Questo, a grandi linee il nuovo organigramma al netto della riforma. Ma per non perdersi nel tecnicismo esasperato, si potrebbe riassumere nei seguenti termini: separazione fra le funzioni tra Senato e Consiglio, il primo avanzerà proposte di carattere scientifico, ma sarà il CdA ad avere la responsabilità finanziaria e contabile dell'ente. In più, la neo figura del direttore generale avrà compiti di responsabilità e dovrà rispondere delle proprie scelte come un vero e proprio manager. Infine, funge da corollario di questa nuova e ritrovata fisionomia dell'ente, il vincolo ad un solo mandato per quanto riguarda il Rettore. Quest'ultima novità, ha trovato, poi, un forte apprezzamento e un largo consenso persino all'interno del movimento studentesco, da sempre contrario alla Riforma Gelmini.
Sempre per quanto riguarda la trasparenza e l'efficienza gestionale, è da apprezzare, anche, la previsione di adozione di un codice etico della Comunità universitaria, al fine di evitare - con un atto di normazione interna - situazioni di incompatibilità di cariche o funzioni, e ipotesi di conflitti fra i vari interessi in gioco. Il codice , in sostanza, determina i valori fondamentali della comunità, promuove il riconoscimento e il rispetto dei diritti individuali, nonché l'accettazione di doveri e responsabilità nei confronti dell'istituzione di appartenenza; e detta regole di condotta nell'ambito della Comunità.
Altra novità – sempre da legare ad una migliore efficienza gestionale – riguarda la possibilità riconosciuta a due o più università di federarsi, anche limitatamente ad alcuni settori di attività o strutture, o anche fondersi. Al fine così, di migliorare la qualità, l'efficienza e l'efficacia dell'attività didattica, di ricerca e gestionale, e di razionalizzazione e ottimizzazione delle strutture e risorse.

Passando poi al Titolo II, la legge ha previsto una serie di deleghe al Governo in materia di qualità ed efficienza del sistema, che si legano alla previsione di un fondo speciale per il merito da istituire presso il Ministero, finalizzato a promuovere l'eccellenza e il merito fra gli studenti, mediante prove di ammissioni nazionali su criteri da individuare a priori e con meccanismi standard. Il Fondo, gestito di concerto con il Ministero dell'Economia e delle Finanze, è alimentato con versamenti effettuati a titolo spontaneo e solidale da privati, società, enti e fondazioni. Così da legare la funzione didattica con le esigenze del mercato del lavoro, attraverso una sorta di apertura preferenziale al “privato” al fine ultimo di contribuire allo sviluppo di una società meritocratica e plurale.

A complemento dell'analisi testuale, nel Titolo III rubricato “norme in materia di personale accademico e riordino della disciplina concernete il reclutamento” si inserisce l'abilitazione scientifica nazionale, che ha durata quadriennale e richiede requisiti distinti per funzioni di professore ordinario o associato. Tale abilitazione, diverrà requisito necessario per l'accesso al ruolo di professore di prima e seconda fascia, e sarà attribuita a seguito di procedura concorsuale da bandire con frequenza annuale a livello nazionale. Così, per ogni settore concorsuale verrà istituita un'unica commissione nazionale di durata biennale per le procedure di abilitazione a professore associato o ordinario, la quale ( commissione) andrà a verificare – seguendo criteri da indicare in sede di regolamento – le professionalità dei partecipanti al concorso. Interviene , poi – in seconda battuta - “la chiamata” da parte degli atenei, attraverso selezioni indette dagli stessi (atenei) e basate sulla valutazione di pubblicazioni e curriculum di studiosi in possesso dell'abilitazione per settore concorsuale, come sopra richiamato. Infine, la formulazione della “proposta di chiamata” da parte del dipartimento avviene con il voto a maggioranza dei professori a ruolo, e con approvazione della delibera da parte del Consiglio di Amministrazione ( CdA). Per quanto riguarda invece, la procedura di reclutamento del ricercatore, essa avviene tramite una selezione interna all'ateneo, e comporta la stipula di un contratto triennale, prorogabile per soli due anni; previa valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte, effettuata sulla base di modalità, criteri e parametri da definire con decreto ministeriale. Così, anche il ricercatore per acquisire il ruolo di professore ( prima e seconda fascia) dovrà essere in possesso dell'abilitazione, che come sopra riportato, a validità quadriennale e necessità anche dell'ulteriore - per così dire - “gradimento”da parte del collegio dei professori a ruolo, i quali andranno a formulare preordinatamente la proposta di chiamata in favore del singolo ricercatore, che andrà ad assumere il ruolo di professore.
Cambia , in definitiva il meccanismo per entrare a lavorare nell'università, non più legato alle graduatorie a scorrimento (che tanto hanno fatto discutere ) per passare diversamente al meccanismo della abilitazione scientifica nazionale e della successiva chiamata da parte dello stesso ateneo.
In ultima analisi, un giudizio complessivo sulla Riforma universitaria, è oggettivamente difficile da esporre, anche perché come ho già anticipato all'inizio dell'articolo non si tratta di una riforma di sistema ma di un riassetto organizzativo dello stesso. Personalmente – lo dico in sincerità – mi sarei aspettato una riforma di più ampio respiro, che ponesse come obiettivo principe il superamento del valore legale della laurea, e che sostituisse “l'abilitazione” con il solo meccanismo della “chiamata diretta” molto più limpido e sicuro nel dare valore al merito sulle singole professionalità.
E infine, sarò impopolare, ma la scelta del testo Gelmini di assegnare più risorse alle Università migliori, seppur lodevole in linea di principio, costituisce un'occasione sprecata atteso che l'attribuzione dei benefici economici non può essere il risultato di trasferimenti centrali, ma deve, quantomeno, essere coadiuvata e supportata da un corretto aumento delle tasse universitarie, consentendo così a ciascun ateneo di stabilire l'importo delle stesse, possibilmente differenziato tra singoli corsi di laurea, in ragione alla qualità che ciascuna Università è in condizioni di offrire.

Alessandro Polcri