martedì 12 giugno 2012
Articolo Eco del Tevere - Riduzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, rafforzamento dell'esecutivo nell'ottica del semi-presidenzialismo. Queste le ipotesi di riforma al vaglio del Parlamento.
Le nostre Istituzioni, per come ce l'hanno tramandate i nostri Padri costituenti , appiano, oggi, con il passare del tempo 'ingiallite' e al pari non più idonee a espletare la propria funzione repubblicana per le quali sono nate e cioè quella di tradurre le istanze popolari in azioni comuni. E così, oggi, complice anche la crisi economica si fa più forte l'esigenza di rinnovarle al fine di correggere e snellire tutte quelle regole che fanno del nostro sistema paese una democrazia “bloccata”, o per meglio dire “zoppa” in quanto non più capace di coniugare la rappresentanza democratica con l'efficienza delle istituzioni viste nella loro complessità. Per questa ragione, e per ciò solo, al di là delle scelte che il Parlamento porterà avanti nel proseguo di questo fine di legislatura, appare comunque “lodevole” che siano le stesse forze politiche che fanno parte di quel 'sistema' ad arrovellarsi attorno ad alcune ipotesi migliorative di riforma; definendo altresì, anche il percorso di intervento da assegnare in termini di priorità che nel proseguo andrò ad analizzare.
Con il primo intervento, attualmente all'esame del Senato, si mira a ridurre sensibilmente il numero dei parlamentari portandoli ad un livello, che se non è in linea con quello delle maggiori democrazie occidentali, vede comunque nel suo complesso una riduzione importante dei suoi componenti. Infatti si passa dai 630 deputati attuali ai 508 e, per quanto riguarda il Senato, si scende dagli attuali 315 senatori a 254. Questa, almeno all'apparenza, è la parte della riforma che maggiormente riscuote consenso fra la gente ma che comunque va detto – per correttezza - poco incide in termini di risparmi per il contribuente-cittadino.
Scendendo nel dettaglio, con il secondo intervento, sempre seguendo l'ordine della bozza di legge costituzionale targata Violante-Quagliariello, si tende – con essa - a ridefinire il perimetro delle competenze del Parlamento, mantenendo pur sempre intatta l'idea originaria di bicameralismo. Anche se questa volta non più perfetto, cioè con i due rami del Parlamento che fanno le medesime cose, ma – e diversamente - apportando qualche piccola modifica in termini di regolamento, che vede – più propriamente - Montecitorio, occuparsi delle materie contenute nel secondo comma dell'art. 117 della costituzione, cioè quelle definite a potestà legislativa esclusiva delle Stato. Mentre – di contro – a Palazzo Madama, toccherà tutto ciò che riguarda il terzo comma, sempre del 117, e cioè di legiferare in quelle materie che rientrano tra la competenza concorrente fra Stato e Autonomie periferiche. E con il fine ultimo, non nascosto, di introdurre un elemento di federalismo anche nelle istituzioni per meglio graduare le istanze centripete statuali, con le esigenze – di segno contrario - dei governi del territorio. Su questo aspetto, che attiene i rapporti fra il centro e la periferia, va altresì ricordato che numerose bozze di riforma giacciono in Parlamento e propongono in sé di rimettere in gioco la stessa idea di ripartizione del potere fra Stato, Regioni e Autonomie. Stante il fatto che, ad un decennio e rotti anni dalla legge costituzionale del 2001 - quella, per intenderci , che rivedeva taluni rapporti in termini di decentramento - , c'è bisogno a detta di molti autorevoli osservatori , di apportare a quella parte di costituzione qualche piccolo ritocco di segno inverso a quello che animò il legislatore di inizio secolo. Si è visto nella pratica che, la divisione in termini di sola competenza fra i diversi livelli istituzionali, se non corretta dalla sussidiarietà verso l'alto, contribuisce – essa stessa - ad acuire i conflitti invece che mitigarli e per ciò stesso a rendere ancora più lenta la macchina della burocrazia statuale. Urge, un ripensamento generale del sistema delle autonomie, magari spostando alcune materie che oggi sono di competenza concorrente su quelle di ordine esclusivamente statale e, mantenendo al contempo, la cornice federale disegnata dal nostro legislatore.
Questa parte della riforma – a mio giudizio – è quella meno convincente fra quelle ipotizzate, stante il fatto che la differenza in termini concettuali fra le due Camere si basa tutta su una diversa attribuzione di competenze che - come ho chiarito sopra - porta irrimediabilmente con sé a situazioni di conflitto. Visto che, a priori, è difficile tracciare un confine preciso su ciò che sia “esclusivamente a competenza statale” o per contro sia “ concorrente” e, su questo, l'esperienza decennale di ricorsi davanti alla corte costituzionale dovrebbe insegnarci qualcosa.
Il terzo punto, quello maggiormente ricco di novità, attiene invece al ruolo che l'esecutivo, il Governo, subirà dall'esito del percorso di modifica costituzionale avviato al Senato. E' indubbio, visto l'orientamento delle forze politiche in generale che l'idea di un forte premierato possa essere considerata una soluzione in sé condivisa e condivisibile ma c'è anche da ricordare che, sempre al Senato e sempre all'interno della maggioranza, si è innestato parallelamente e alternativamente - rispetto al premierato - un percorso diverso è forse più ambizioso che tende addirittura a postulare il cambiamento della forma di governo da parlamentare a semi-presindenziale.
Andando con ordine, cinque sono gli emendamenti apportati alla bozza Violante-Quagliariello, sulla quale – come accennato – si innesta un percorso semi-presidenzialista, per concentrarsi in sostanza su tre aspetti fondamentali. Il primo, l'elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Repubblica da tutti i cittadini che abbiano compiuto la maggiore età. Dunque, non più un Presidente super partes slegato dall'agone politico e strenuo difensore della Costituzione. Ma, diversamente, un leader che presiede il Consiglio dei Ministri, nomina il Primo Ministro ( non più Presidente del Consiglio) e su proposta di questo nomina e revoca i singoli Ministri restando in carica cinque anni con la facoltà di rielezione per una sola volta. Accanto a lui, il Primo Ministro, scelto fra le forze di maggioranza, una sorta di “ comandante in seconda” che compie le scelte politiche quotidiane, dirige e coordina l'attività dei ministeri e dell'amministrazione in generale.
Il secondo punto, invece attiene, i rapporti fra Parlamento e Governo - in particolare con il Primo Ministro - fortemente 'razionalizzati' da una previsione speciale di preferenza dei disegni di legge, da quest'ultimo presentati, su quelli proposti dai singoli parlamentari, in ordine ai lavori dell'assemblea e con dei tempi cadenzati riguardo all'iter conseguito. In pratica il Primo Ministro diventa il dominus, dettando l'agenda del Parlamento e potendo richiedere altresì al Presidente della Repubblica anche lo scioglimento del Parlamento stesso. In sostanza il ruolo del Parlamento viene fortemente ridimensionato nei suoi effetti pur garantendo altresì - ed è il terzo aspetto da evidenziare – uno statuto di garanzia delle minoranze in Parlamento - azionabile da un quarto dei parlamentari - con il quale sollevare questione di legittimità costituzionale delle leggi approvate in un termine non superiore a giorni trenta.
Da ultimo, si pensa di collegare alla suddetta ipotesi di riforma anche la previsione di modifica del sistema elettorale in senso maggioritario a doppio turno, per esaltare – al contempo - il carattere maggioritario insito nel semi-presidenzialismo da un lato e, dall'altro, (sull'ipotesi di riforma parlamentare) valorizzare il ruolo dei maggiori partiti a discapito di quelli più piccoli e al fine di rendere più stabile e razionale il sistema politico in generale.
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